«Perché conviene avere l’obbligo dell’educazione finanziaria a scuola

di Marco lo Conte

Sole 24 Ore

«Com’è possibile che già a 15 anni, su temi come la gestione dei soldi e il risparmio, ci sia una differenza di alfabetizzazione finanziaria tra ragazze e ragazzi? L’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse ad avere differenze di genere tra i giovani. Per questo è necessario introdurre l’educazione finanziaria nelle scuole in forma obbligatoria, il che le permette di svolgere il proprio compito di equilibratore sociale tra classi sociali, generi e provenienze geografiche». Annamaria Lusardi è da qualche giorno in Italia dove ha dato il via al Mese dell’Educazione Finanziaria, promosso dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria che guida come Direttrice. Una full immersion di eventi che la terranno per un po’ lontano dalla sua cattedra universitaria di Economia a Washington e dal suo Global Financial Literacy Excellence Center, think tank molto ascoltato negli Usa. Piacentina, da 30 anni negli Stati Uniti, Lusardi è una delle più note studiose di finanza personale e una delle massime esperte mondiali di financial literacy: ha coordinato Ocse ed anche Gallup e S&P nel sondaggio realizzato nel 2014 in 148 Paesi. Risultati poco incoraggianti per il suo Paese: l’Italia è 63esima in classifica, con solo il 37% degli adulti con competenze adeguate in materia di inflazione, diversificazione e rendimenti composti.

«L’educazione finanziaria non può essere un privilegio – spiega –, o una prerogativa dei ragazzi con i genitori più istruiti e abbienti. Occorre familiarizzare i più giovani con una corretta gestione del denaro: dal motorino al telefono allo shopping, i giovani hanno consuetudine con la materia e vanno accompagnati. La scuola serve a questo. Ora che è l’educazione civica è entrata di diritto nei programmi scolastici, occorre far lo stesso con i temi di risparmio». L’arma di persuasione di Lusardi è il tono della sua voce: un misto di garbo e fermezza dell’argomentare che, con aplomb anglosassone e una leggera inflessione nordemiliana, trasmette con passione a ogni incontro l’importanza dell’educazione finanziaria e dei costi che derivano dalla mancanza di un’adeguata cultura finanziaria. «Se le persone sbagliano ci sono costi che gravano sulla collettività: dalla ludopatia, alle asimmetrie informative, non mancano esempi che rendono urgente una più diffusa cultura finanziaria in Italia. Si tratta di fare prevenzione sociale: si pensi al Portogallo che dal 2018 ha reso obbligatoria l’educazione finanziaria nelle scuole, così come lo è in 25 Stati americani, un po’ motivati anche dai tanti studi che abbiamo fatto sugli effetti delle conoscenze finanziarie. In Nuova Zelanda l’alfabetizzazione finanziaria è stata introdotta con la riforma delle pensioni, che è un volano eccezionale per spingere i cittadini a capire cosa suddere del loro denaro, nel breve come nel lungo termine».

Per molti l’educazione finanziaria resta ancora una petizione di principio. Cosa manca per farne percepire la necessità? «Intanto ricordando che non si tratta di diventar esperti di finanza o abili trader in Borsa, piuttosto di fornire ai cittadini gli strumenti per comprendere in modo autonomo come funziona il proprio denaro e permetter loro di compiere scelte consapevoli. Domandando aiuto, in caso, agli esperti. Per questo l’educazione finanziaria è uno strumento di protezione per i consumatori e per questo occorre evitare di lasciare indietro fette della società. Basta con questa antica reticenza a parlare di denaro. Bisogna entrare in una fase nuova, lo richiedono i tempi: la pandemia ha costretto donne e uomini a controllare i costi, i rendimenti, a verificare le scelte fatte. È il terreno su cui l’educazione finanziaria può dare molto agli individui. D’altronde c’è sempre un periodo di incubazione e gestazione di idee importante, prima che la sensibilità per un tema diventi collettiva e virale. Si pensi alla sostenibilità e all’ambiente: sono stati i giovani, con le loro mobilitazioni a dettare l’agenda degli adulti e ora perfino dei grandi colossi finanziari. L’esempio parte da loro, così come in tutte le trasformazioni sociali del passato e lo stesso accadrà per il bagaglio essenziale di conoscenze in materia di risparmio».

Ma come parlare ai giovani? «Non dalla cattedra. La finanza è un linguaggio che va allargato: i giovani vogliono imparare dai giovani e quindi dobbiamo comunicare nel modo in cui parlano i giovani. Per questo è meritoria la vostra iniziativa dei video di Young Finance insieme agli youtuber. Ciò che conta però ricordare è che per comunicare occorre sapere: divulgare non significa banalizzare. Il corso di finanza personale che tengo all’Università di Washington ha come base un solido apparato matematico statistico. Occorre spiegare bene ai giovani queste nozioni di base, per poter affrontare la loro vita e le sfide collettive: si pensi al debito pubblico e al peso inconsapevole che i ragazzi portano sulla propria schiena. È proprio anche a causa di questo debito che occorre investire su di loro».

Vi siete inventati il mese dell’educazione finanziaria per sollecitare attenzione sul tema: tantissimi eventi in tutta Italia, ora anche in presenza. Ma i risultati? «C’è una frase che viene attribuita a diverse persone che dice: la maggior parte delle persone sopravvaluta quello che possono fare in un anno e sottovaluta ciò che può fare in dieci anni. Un buon risultato del Comitato è di essere riuscito a cambiare la visione dell’educazione finanziaria. Ed è stato merito di un organismo come questo, autonomo e separato dai Ministeri e dalle parti. Nel 2017 quando parlavo di educazione finanziaria nei convegni sentivo reticenza e pessimismo. Ora invece si è capito che porta vantaggi a tutte le persone. Il Comitato ha un budget molto limitato ma ha l’ambizione di farsi sentire e di coinvolgere tramite le centinaia di eventi che aderiscono al Mese, un numero crescente di persone. Per ottenere risultati importanti abbiamo bisogno di tutti. In inglese si dice “It takes a village”, possiamo adattare in “It takes a country”».